In casa famiglia si sta male

L’altro giorno ero al telefono con una signora dell’amministrazione di una Asl. Conosco solo telefonicamente la signora ma confesso che ogni tanto la uso. La uso come valvola di sfogo. Perché isabella ha la capacità sempre più rara di saper ascoltare.

Isabella è come una barista… ha quell’abilità di farti sfogare e capirti senza dire niente. Non siamo amici ma in qualche modo Isabella mi capisce.

T: sai Isabella a volte guardo la casa famiglia e mi accorgo che mi stupisco che siamo ancora aperti dopo vent’anni. Ma come cazzo abbiamo fatto?!

Isabella sorride e risponde da bar.

I: Il sociale fa schifo…

E ci salutiamo.

Ma io continuo a riflettere.

È vero. Mi stupisco non solo che la nostra realtà sia ancora lì, ma che tutte le case famiglia esistano.

Mi viene in mente Wittgestein quando scriveva che il mistero non è il mondo, ma il fatto stesso che ci sia un mondo.

Ma Wittgetsein diceva anche che non esiste l’enigma e che se una domanda è posta in modo compiuto allora deve essere possibile trovare anche una risposta. E quindi io ho continuato a pensarci. A prendere sul serio il mio stupore.

Ma perché non dovrebbero esistere le case famiglia tanto da meravigliarmi che invece ci sono? Mi sono chiesto se fosse un mio desiderio, se fossi stanco dopo tanti anni di combattere sempre con le stesse cose, anche perché non mi sento per niente don Chisciotte e alcune difficoltà sarebbe splendido se fossero solo mulini a vento.

E pensa che ti ripensa ad un certo punto mi è venuta in mente una giudice del tribunale per i minorenni. Niente meno. Una giudice.

Insomma il fatto si era svolto il giorno prima. Una collega psicologa della casa famiglia aveva portato una nostra ragazza ad un incontro con la giudice in tribunale. Incontro terribile nel quale la giudice si era dimostra professionista di quell’ascolto sospettoso di cui altre volte abbiamo detto. L’ascolto sospettoso è un modo di relazionarsi con l’interlocutore che ricorda la paranoia. Come se ogni parola fosse valutata con il sospetto che l’interlocutore nasconda qualcosa. È per capirci l’interrogatorio della polizia. Ma il poliziotto è costretto dal suo mestiere.

Il discorso diventa quindi impossibile e spiacevole. Tu, psicologo, educatore della casa famiglia, sei in un discorso il cui significante è la clinica. L’altro, assistente sociale, giudice, è in un discorso in cui significante è la luce della lampada da terzo grado puntata sul sospetto. Tu non lo sai ma sei appena diventato un soggetto sospetto di nascondere.

E che cosa?

La giudice in questione ad un certo punto ha svelato l’arcano, commentando che la ragazza, che detto per inciso ha chiesto in tutti i modi di essere allontanata dalla sua famiglia fino a minacciare il suicidio, ha detto all’inizio del colloquio con la giudice che lei stava bene in casa famiglia e avrebbe avuto piacere a rimanerci.

G: capite? Questo ha destato il mio sospetto, un campanello d’allarme!

Ora fermiamoci un momento.

Questo racconto potrebbe chiudersi qui. Sarebbe solo ridicolo. Farebbe molto arrabbiare ma qualsiasi persona dotata di buon senso ne coglierebbe subito l’aspetto comico.

Se si prende sul serio un fatto simile, allora bisogna essere non seri, ma serissimi. Ed io credo che sia un fatto serissimo.

La giudice è stata senza volerlo estremamente onesta e nell’avvenire di quello scambio ridicolo, comico, emerge qualcosa di estremamente inquietante appunto.

Emerge un pensiero, o forse un tic nevrotico, che potremmo dire così.

“È impossibile che un ragazzo in casa famiglia stia bene”.

Questo credo che è quanto pensino in molti. Ma c’è dell’altro purtroppo.

Un ragazzo in casa famiglia non può stare bene.

Non solo nel senso che la casa famiglia non è un luogo dove si può stare bene. Anche. Molti si stupiscono che ad esempio noi facciamo delle vacanze estive con i ragazzi. Che quando abbiamo tempo libero stiamo tutti insieme in comunità. E che i ragazzi e noi ci divertiamo un sacco. La casa famiglia deve essere un luogo che fa scomparire i ragazzi dall’orizzonte sociale. Quei problemi non vanno visti. I problemi delle famiglie. Gesù ma perché ne devi parlare?!

Figurati se puoi raccontare un piacere.

Ma oltre a ciò c’è qualcosa, per la mia sensibilità, di più allarmante. Ovvero che il ragazzo in questione non può stare bene nel senso che non deve stare bene. È come se per molte persone la sofferenza fosse una colpa, legata a doppio nodo ad un’espiazione. E allora tu, casa famiglia, come ti permetti di farli stare bene e tu operatore come ti permetti di star bene con quel ragazzo colpevole.

Insomma sorvegliare e punire. Violenza e fascismo (che poi sono sinonimi).

Hai più senso nei discorsi con questi uomini e donne delle istituzioni se sei un sorvegliante. Ti capiscono di più e forse forse fai loro meno paura.

Quindi ad un certo punto mi è sembrato tutto più chiaro.

Mi sono venuti in mente altri mille modi per non farci esistere. Tutti ugualmente perversi. Perversi perché invece ci si chiede di esistere. Ad esempio su un piano economico. Il nostro interlocutore è un’istituzione mai responsabile, che può ritardare senza fine i pagamenti. Ma tu non puoi perché il durc mica aspetta.

Chiunque se ritardi un pagamento può portarti in tribunale, ma hai mai provato a portare un municipio in tribunale per lo stesso motivo?

Vogliamo parlare del covid? Che oggi è sempre attuale? Ci fanno ispezioni come se fossimo una RSA, con questionari dai quali emerge chiaramente una nessuna conoscenza della nostra realtà. E va pure bene se ci aiuta a stare più sicuri. Siamo valutati come una struttura sanitaria?! Viva dio, sono anni che diciamo che ci deve essere nelle nostre realtà un’integrazione tra sociale e sanitario. Ma prova a chiamare la asl per sapere se la regione Lazio ha messo gli operatori tra gli aventi diritto al vaccino. In un primo momento avevano incluso i veterinari, ma non gli operatori delle case famiglia.

Semplicemente tu non esisti e se malauguratamente provi ad essere, come il discorso della ragazza che nel suo candore ha osato dire di stare bene… che gli piace… bè allora è sospetto.

Ecco qui.

Mi stupisco che noi e tanti altri esistiamo ancora. È un fatto culturale e antropologico. Che ci minaccia e contro il quale dobbiamo scorgere un pericolo per la cura stessa dei ragazzini e la sopravvivenza delle realtà d’aiuto.

Per una buona fetta della società e delle istituzioni in realtà noi non dovremmo esistere.

E dunque la questione si pone in modo terribile. Perché per voi in realtà quei ragazzi non dovrebbero esistere. Dai, vi fanno schifo. E vi facciamo schifo anche noi. Figuriamoci provare piacere!

In una società nella quale neanche la violenza sulle donne riesce a “bucare” figuriamoci la casa famiglia e ciò fin dentro le istituzioni, cara giudice.

Però a questo punto mi concedo un ultimo passaggio.

Perché quando esisti da tanti anni e ti accorgi che sei stato costretto ad essere militante, perché ogni dispositivo che avrebbe avuto un ruolo di aiuto nei tuoi confronti, in realtà punta a non farti essere, ti sei guadagnato comunque un diritto. E ti autorizzi da solo ad esistere. Se non altro perché sei in prima linea, sul campo, e chi sopravvive così per tanti anni ad un certo punto può anche accorgersi di essere un modello. E di avere molte storie da raccontare.

Molti di noi hanno studiato, molto più di quanto abbiate fatto voi, e istituzioni scientifiche ci hanno reso in grado di essere professionisti liberi e radicali. A noi basta questo… perché le istituzioni che rappresentate in modo pessimo ci chiedono comunque di aiutare ragazzi.

Ci sono stati momenti in passato nei quali gli operatori hanno dovuto difendere gli assistiti dalle stesse istituzioni. E forse forse è arrivato il momento di dire che in questa storia voi siete i cattivi e che il vostro pensiero non solo non aiuta i ragazzini che noi aiutiamo, ma li danneggia.

La stessa giudice, di cui sopra, a conclusione del colloquio, ha chiesto alla ragazza: “ma tu non ce li hai degli zii, perché in casa famiglia si sta così male”.

Cara giudice, tu stai male! Sei violenta e fascista.

2 comments

  • Esattamente caro Tommaso, hai colto il punto. Violenti e fascisti ti faccio eco. Non so se pubblicherete il commento ma posso dirvi per esperienza diretta che “nelle case famiglia si sta bene” indirettamente proporzionalmente al fatto che “in famiglia si sta male”, ovviamente se la casa famiglia è gestita bene. La giudice non era avvezza ai sillogismi. Bisogna finirci anche in tempo in casa famiglia…. Salvar-si, in tempo. E chi non se ne pre-occupa è direi anche complice di violenza.

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