Brevi accenni dovuti a tedio domenicale sulle case famiglia e su la nostra struttura. A mò di “spiegone” per chi non ci conosce e ripassino per chi ci segue con amore da sempre.

Volevamo dirvi qualcosa sulla casa famiglia Rosa Luxemburg. L’esigenza nasce dall’insofferenza spesso provata dalle comunicazioni telegrafiche e sempre frammentate che i social impongono.
Insomma le foto sono belle e costituiscono buona parte della nostra narrazione, ma ogni tanto tocca pure condividere parole.
Si corre secondo noi il rischio di perdere un’unità del discorso che pure è necessaria. Necessaria a comprendere ed interpretare cosa c’è ad esempio dietro le immagini che scorrono sui nostri social. D’altra parte non corriamo qui il rischio di imporre letture lunghe a chi non legge oltre le dieci righe. Chi non fosse interessato può passare subito ad altro.
La casa famiglia Rosa Luxemburg è il gruppo che la anima. La matrice di questo gruppo si è costituita circa 20 anni fa.
Per matrice intendiamo ciò che anima un gruppo appunto, a prescindere dai suoi elementi che via via negli anni si sono susseguiti. Il termine matrice viene da madre, dalla materia fondamentale di cui è costituito un elemento, è una forma che dà forma, un codice di riconoscimento, è ciò che costituisce l’origine, la causa fondamentale, l’elemento ispiratore di un fatto o di un avvenimento.
La matrice è ciò che rimane.
Noi siamo nati in modo particolare rispetto ad altre realtà dell’aiuto.
Eravamo un gruppo di ragazzi un po’ sgangherati, ideologicamente orientati e con l’idea che la casa famiglia fosse una sorta di comune nella quale un gruppo di adulti si costituisce intorno all’utopia che avrebbe salvato il mondo se quei ragazzini fossero stati salvati.
Ciò continua ad essere probabilmente l’anima del nostro lavoro. Un’anima romantica. Non ci siamo costituiti intorno ad un progetto sociale, con l’idea di fare soldi, o perché ad esempio eravamo psicologi o educatori che avevano studiato per questo e si affacciavano nel mondo del lavoro. Negli anni non abbiamo fatto altri progetti e non abbiamo intenzione di farli. Ma in venti anni abbiamo visto aprire e chiudere tanti progetti, nati senza anima. E noi siamo ancora qui col sorriso ogni volta che stiamo con i ragazzi. Forse per questo per noi termini come burn out non hanno mai avuto cittadinanza a Rosa Luxemburg. Noi ci sentiamo male lontani dalla nostra casa.
Forse esperienze precedenti, di case famiglia vecchia scuola, con la famiglia che vi abitava all’interno, hanno segnato la nostra immagine di comunità, oltre a quell’utopia pre-politica del mondo salvato dai ragazzini.
Poi è arrivata la psicoanalisi e i tanti anni che abbiamo dedicato alla formazione e che ancora ci impegnano tanto. Perché avevamo due domande semplici a cui nessuno sapeva rispondere.
La prima suonava così. A cosa serve la casa famiglia?
Qui nel tempo ci fu evidente che l’unico obiettivo sensato che potevamo darci era la riduzione della sofferenza dei ragazzi. Un po’ come qualcuno che sta male e si rivolge ad un medico. Il nostro unico criterio è questo, la sofferenza dei ragazzi e poter intervenire in direzione di una diminuzione del loro soffrire. Quindi il nostro unico parametro è la clinica.
Ciò ci ha portato e ci porta spesso a simpatiche discussioni con i servizi sociali. In quanto per noi questo punto è centrale e non discutibile. È una questione etica.
La psicoanalisi è stata utile perché ci ha risposto alla seconda domanda che poteva suonare così: come si aiutano i ragazzi? Una domanda che interrogava circa il metodo, niente meno.
Non è scontato pensare che le case famiglia abbiano un metodo. Perché di fatto, con buona pace dei nostri colleghi operatori, la questione del metodo non ci sembra sia stata mai posta e affrontata seriamente all’interno del nostro ambiente.
Noi invece lo abbiamo fatto perché se non puoi dire il metodo, o hai delle parole d’ordine, tipo la fine che ha fatto il termine empatia, o alcune orribili parole di matrice anglosassone come empowerment, o improvvisi. In entrambi i casi sei disonesto. Lo abbiamo fatto pubblicando articoli su riviste scientifiche, andando ad interrogare argomenti mai battuti prima e sui quali c’è ancora grande imbarazzo da parte dei servizi, come la sessualità, l’omosessualità, la transessualità dei nostri assistiti.
Abbiamo studiato e scritto molto su questi argomenti, aiutati da chi ne sapeva più di noi e da una supervisione durata circa 13 anni.
Si potrebbe dire che a Rosa Luxemburg, nonostante sia sempre rimasta quella matrice utopica, nulla è lasciato al caso e tutto viene pensato dal gruppo in termini di transfert e contro transfert (o transfert dell’operatore o del gruppo di operatori). Tutto ciò che accade per noi ha un senso ed è sintomo, lì dove via via ci è apparso sempre più chiaro, con gli psicoanalisti di lingua francese, che la comunità è un dispositivo di aiuto, che fa emergere i sintomi (che dunque non vanno considerati il male), che lavora sulla possibilità che i ragazzi si creino uno psichico e che questo psichismo ha come espressione la rappresentazione come opposto dell’agito.
Tutto da noi è intriso fin nelle fondamenta da questo specifico modo di funzionare della comunità.
Che continuiamo a chiamare casa famiglia proprio in quanto il termine famiglia per noi non ha nessun valore ideologico ma rappresenta una scena, la scena nella quale i ragazzi si sono feriti e una scena che da noi i ragazzini possono ritrovare sufficientemente concreta per poter fare degli investimenti affettivi e ripetere gli esiti di un’anima ferita all’origine della propria esistenza. Tutto qui.
La psicoanalisi ci ha formato anche in un altro senso. Ovvero ci ha consegnato all’evidenza che l’unico strumento che si ha in casa famiglia è un’equazione personale e di gruppo. Che anche per gli operatori vale lo stesso discorso che vale per i ragazzi e dunque quella scena famigliare farà emergere fantasmi e sintomi di ciascuno dei soggetti impegnati nella relazione. Dunque abbiamo lavorato tanto su noi stessi, le nostre analisi personali, i nostri percorsi di formazione e di supervisione.
Anche questa decisione ci sembrava una scelta etica perchè stavamo studiando per essere la realtà più formata e di livello più alto che un ragazzino in difficoltà potesse incontrare come risposta ad una sua richiesta di aiuto. E così è stato.
Anche perché, lavorando in prima linea da due decenni, ci sembra evidente che la sofferenza della popolazione di adolescenti in difficoltà si aggravi, così come avviene sui grandi numeri in tutto il mondo. La clinica attuale da tempo non presenta casi “sociali” sempre che siano esistiti, ma situazioni di ragazzi con funzionamenti al limite che arrivano da noi in tenerissima età. Così ci è sembrato importante, mantenendo la definizione di “casa famiglia” considerare comunque il nostro progetto come sociale e sanitario al tempo stesso. Lì dove la regione Lazio ancora distingue tra strutture sociali e comunità terapeutiche. Distinzione a nostro avviso ingenua nel migliore dei casi, lontana galassie dall’attuale utenza dei servizi sociali.
Da ultimo, proprio perché siamo rimasti una casa famiglia “originale”, e qui intendiamo anche il nostro legame con la rivoluzione di Basaglia, le origini del lavoro in piccoli gruppi, il legame col territorio e la presenza di un forte aspetto politico del nostro mestiere, pensiamo che i ragazzi, fatte queste premesse, si curino semplicemente stando all’interno di un clan di adulti, aperto ai servizi, alle famiglie dei ragazzi, al territorio, che si occupa di ragazzini, un clan di adulti che ha il proprio mestiere e le proprie idee forti. Da ciò è derivato il nostro impegno ambientalistico, la costituzione di una fattoria all’interno della struttura, la ricerca di un contatto con la natura che la vita in campagna ci ha agevolato. Pensiamo che questo faccia parte di un progetto terapeutico non nel senso della vecchia concezione dei laboratori e della pet terapy. Noi crediamo che laboratori in un contesto famigliare non abbiano senso, e anzi andrebbero a snaturare quel setting concreto che consente un transfert concreto, uno spazio transizionale, di gioco e di illusione. Non crediamo in qualcosa che sia terapy lì dove da noi ogni cosa lo è dal momento in cui viene pensata e sentita.
La nostra è un’esperienza autentica e forte, politica ci verrebbe da dire, una presa di posizione sociale, rispetto alla polis, alla Legge e al mondo, che ci connota come attivisti.
Chiaramente tutto ciò ha a che fare con l’aiuto, così come aiuta sempre avere una famiglia con delle idee chiare, attiva e sensibile all’interno della società di cui fa parte, che riconosce ed è riconosciuta da essa, pur rimanendo sempre interessata a proporre con il proprio esempio uno stile di vita alternativo (parola che purtroppo si usa sempre di meno).