Conoscere, scoprire, spostare, imparare. Dove i prati diventano boschi.

Nell’ultimo anno abbiamo fatto un’esperienza molto particolare. Un’esperienza al limite.

La casa famiglia rosa luxemburg è nata con l’idea di posizionarsi in uno spazio mediano tra il sociale ed il terapeutico. Questo perché fin dal principio avevamo avuto bisogno di un progetto “al limite” per ospitare ragazzi “al limite”.

Ci corre l’obbligo di precisare un paio di concetti importanti per quanto stiamo cercando di chiarire.

Quando usiamo la definizione “al limite” abbiamo in mente tutta quell’area cosiddetta border line per definire il funzionamento mentale dei nostri assistiti. È anche un modo per dire e definire di cosa essi soffrano. In quanto se si parla di casa famiglia si parla anche e soprattutto delle sofferenze delle ragazze e dei ragazzi che in essa vivono e di chi abbiamo cura. Ma abbiamo anche in mente che per poterli aiutare i dispositivi oggi a nostra disposizione sono limitati. Ovvero un adolescente in carico al servizio sociale, sempre più spesso presenta delle “ferite all’origine” dei traumi in precocissima età, che esitano in adolescenza in condotte distruttive e devianti.

Dunque per aiutarli si ha l’impressione di dover spingere su un limite, spingere “al limite”, ciò che siamo soliti utilizzare. Come fossero loro stessi a chiederci di andare a prenderli dove stanno.

Dunque abbiamo fin da subito cercato di capire dove si colloca il limite della casa famiglia. I nostri ragazzi sempre più spesso hanno bisogno di interventi integrati. Che siano sociali, ma anche trasformativi, di cura, in altri termini terapeutici.

Nell’ultimo anno abbiamo fatto un’esperienza molto particolare proprio grazie a ragazze e ragazzi con delle vite molto difficili che ci hanno insegnato tanto.

Abbiamo capito che la casa famiglia ben si presta in questo senso. Perché ha un assetto comunitario ed è ormai noto che certe sofferenze si curano “in gruppo”. Il gruppo aiuta i ragazzi in quanto dà loro la possibilità di fare molteplici investimenti affettivi, integrare ciò che in loro è scisso e poter fare l’esperienza di legami affettivi forti. In questo invece la casa famiglia non è una comunità. Mantiene il suo vertice orientato dall’esperienza famigliare. In che senso? Per farla breve è come se dicessimo: tu ti sei ammalato in famiglia e in una scena “come se” fosse una famiglia ti curerai. In quanto in quella scena è tutto disposto per far emergere il sintomo nella ripetizione dei legami, che si vanno creando. E per noi i sintomi sono importanti.

Seguendo tali riflessioni già da anni abbiamo ritenuto superficiali e dannosa la distinzione che spesso viene applicata in contesti come il nostro, tra educativo e psicologico. Se si conosce a fondo il funzionamento mentale di adolescenti sofferenti e come si lavora nel senso di una diminuzione della sofferenza, allora è anche chiaro che un aiuto non si potrà distinguere declinandolo di volta in volta tra il polo educativo e quello psi. Rifarsi il letto, andare a scuola, una chiacchierata con un adulto piuttosto che a cena tutti insieme, sono operazioni che hanno un valore enorme. E tutto concorre ad una crescita armonica dove ogni istanza del mondo interno possa ritrovare un giusto collocamento. Poter fare legami, sia affettivi che di pensiero, poter pensare la sofferenza piuttosto che agirla è il nostro obiettivo principale e a stento riusciamo a pensare in termini di educativo vs psicologico.

Così l’aver ospitato e aiutato molti ragazzi con una diagnosi, con delle psicopatologie già in età precoce, con una sofferenza mentale medio grave, ci ha insegnato nell’ultimo periodo che in casa famiglia c’è un grosso problema da risolvere. E veniamo al limite che abbiamo incontrato.

Deve venire giù anche la distinzione tra sociale e sanitario.

Ma se quella tra educativo e psicologico è più una questione di assetto interno del gruppo e di modalità di lavoro, di formazione degli operatori e del servizio sciale, la distinzione tra sociale e sanitario ha una portata più ampia, politica ed istituzionale.

Vogliamo dire che per accogliere ed aiutare questa nuova generazione di ragazze e ragazzi sempre più giovani e sempre più difficili (e chi lavora nei servizi sa cosa stiamo dicendo) c’è bisogno di un passo avanti più concreto.

La casa famiglia non si dovrebbe snaturare, ovvero non dovrebbe diventare comunità terapeutica. Abbiamo molto da imparare dagli amici delle comunità ma sono pochi quelli che lavorano con gli adolescenti e questo la dice lunga. L’eccesso di istituzionalizzazione non è utile e forse nemmeno praticabile lì dove però un eccesso di scena famigliare porta troppo velocemente a contattare ciò che è traumatico per loro. L’istituzione aiuta un io fragile che in essa trova un contenitore ed un appoggio, ma non deve l’istituzione entrare a gamba tesa nel gruppo di affetti che caratterizza la casa famiglia.

E allora cosa fare?

Ci piacerebbe uno spazio di aiuto, riconosciuto dalle istituzioni, come a metà tra sociale e terapeutico. Nella Regione Lazio servirebbe mettere mano ad una nuova definizione che consenta la nascita di strutture nuove o riconosca l’intervento, di chi ha le qualifiche giuste, in quanto francamente terapeutico. E cosa cambierebbe? Cambierebbe tutto. Cambierebbero i nostri interlocutori, un riconoscimento professionale che anche le case famiglia stesse sembrano avere timore nel chiedere e delle risorse che oggi sono fantascienza.

Da parte nostra quello che possiamo dire fin da ora, al termine di questo anno di follia, è che servirebbe tanta passione, servirebbe l’impegno e la partecipazione di tutto il territorio, istituzioni (pensiamo al comune, la asl, le scuole, i carabinieri) e cittadini, servirebbe tollerare che tutta casa possa essere distrutta e ricostruita, ma sopratutto servirebbe essere molto ma molto preparati. Perché i giovani non dormiranno

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