Volevo dare parola ad un’idea che mi gira in testa da diverso tempo. Ve lo dico subito. Le riflessioni che seguono risentono di una certa radicalità. Che credo sia necessaria però in questa fase di estrema debolezza delle case famiglia. Non posso nemmeno scendere troppo nel dettaglio e non è questo lo spazio. Accennerò appena alla questione. Se alla fine non sarai d’accordo, nessun problema. Non si tratta di convincere nessuno. Al limite è in gioco qualcos’altro. Se sentirai che queste righe ti riguardano sarà già tanto.
Partiamo da un dato. Le ragazzine e i ragazzini ospiti in casa famiglia presentano sempre più dei sintomi che fenomenologicamente si presentano “al limite”. Da un punto di vista strutturale parliamo di psicosi in adolescenza.
Pensiamo non solo alle diagnosi border line. Pensiamo ai disturbi di personalità, ai vari sintomi, ai tagli, l’anoressia, la bulimia, l’esplosione di rabbia, ma anche allucinazioni e pensiero delirante. Oggi i ragazzini e le ragazzine che ospitiamo in casa famiglia presentano come minimo un disturbo post traumatico.
E quindi?
E quindi è tutto sbagliato.
Parliamoci chiaro. Le case famiglia non sono attrezzate. Pur se in realtà lo sono. Mi spiego. Le case famiglia sono un dispositivo di aiuto prezioso in questi casi. Sono uno spazio perfetto per queste situazioni al limite. Mi spingerei a dire che sono l’unico. Proprio rispetto a ciò che non hanno e non sono. Non sono comunità terapeutiche e non hanno le rigidità di un’istituzione troppo ingessata. Le case famiglie sono aperte, mantengono una vocazione sociale, ma soprattutto finché si chiamano “casa famiglia” vuol dire che hanno come matrice una scena famigliare. Ovvero rapporti affettivi. Lavoro costante sul legame. Gruppo. Notte. Non posso entrare nel merito di ognuno di questi strumenti, ma tutti si leggono nel senso dell’ emersione di un transfert concreto. Questo in casa famiglia c’è, anche se la struttura non sa neanche che esiste una cosa del genere. E l’unica strada da percorrere se si vuole essere trasformativi è quella del transfert.
Il problema delle case famiglia è che non lo sanno fare. Meglio. Lo fanno, ma non lo sanno. Tutto qui. A volte le cose vanno bene. Altre vanno male. Ma sempre manca una lettura clinica di ciò che avviene. Adesso incazzatevi tutti, ma la cosa sta così. È inutile discutere di progetti educativi con ragazzini che soffrono. E in fondo voi che avete un’enorme e preziosa esperienza lo sapete bene.
Questi ragazzini vi mettono in crisi. Ma in futuro sarà sempre peggio.
I servizi sociali. Tutto sbagliato. La sensibilità di molte colleghe, la loro preparazione, non sfiora neanche da lontano la complessità di queste situazioni. Molto spesso si muovono come se dovessero trattare casi sociali. Altre volte si arrabbiano con le strutture perché non sono “contenitive”. Ignorando il senso profondo del termine “contenitore”. Alcune sanno che dovrebbero avere ben altri interlocutori. Ma sono lucciole nelle tenebre.
Il tribunale. Tutto sbagliato. Il tribunale si divide in due. Ci sono i giudici bravi. Ascoltano quello che le strutture hanno da dire e sono consapevoli che le case famiglia, nel gruppo di aiuto, hanno un ruolo centrale. Questi almeno ci provano. Poi ci sono i giudici che hanno un problema con la castrazione. Ogni loro intervento risente della necessità di rimarcare che loro comandano. A questi non gliene frega niente dei ragazzini. Per qualche oscuro disegno del destino lavorano in un tribunale che si occupa di minorenni e sono scontenti. Si vede. Non sanno neanche come è fatto un ragazzino. L’unica cosa che interessa loro è che in quella mezz’ora nella quale ti fanno la grazia di parlare, loro possano comandare.
Tutto qui.
Sembrano ragazzini delle medie.
Insomma è tutto sbagliato.
Ci sarebbero le asl… sarebbero anche attrezzate per questo lavoro.
Però la maggior parte di loro non ha proprio in testa che esiste uno spazio intermedio tra le case famiglia e le comunità terapeutiche. E ragiona a compartimenti stagni. E ciò perché infatti quello spazio non esiste.
È questo se vogliamo il punto. Non esiste per la Regione Lazio, per quelle case famiglia che credono con ingenuità che possono continuare a considerarsi solo come contesti educativi. Non esiste per i sevizi sociali e per il tribunale. Non esiste per la legge.
Anche se io so che invece esiste. E stiamo sprecando un sacco di tempo a discutere con i servizi che non riconoscono questo spazio. Io so che molte strutture ospitano ragazzini e ragazzine con grandi e gravi difficoltà. Io so che operatori e operatrici con enorme passione cercano di dedicarsi a loro, raggiungendoli in quei vuoti popolati di mostri nei quali si sono rifugiati da quando erano bambini.
Questi sono la speranza per quei ragazzini. Ma di quei vuoti popolati di mostri dovrebbero almeno conoscere la fauna.
Detto ciò ci sono due possibilità.
Una sarebbe quella che la regione Lazio riconoscesse altre strutture da porre tra case famiglia e comunità terapeutiche. Alcune regioni lo fanno.
L’altra, che mi convince di più, è che le case famiglia possano attrezzarsi con un piano terapeutico, una competenza che dovrebbe essere loro riconosciuta. E già mi viene da ridere a pensare che qualcosa tipo una professionalità sia riconosciuta alle case famiglia.
Ma per ora tutto quello che è, è il deserto.